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Mantenimento dei figli da parte degli zii PDF Stampa E-mail
Con la sentenza n. 23978 del 2015 la Suprema Corte di Cassazione ribadisce che l'obbligo di cui all'art. 148 Cod. Civ. , di mantenere il nipote  grava solo sugli ascendenti e non sugli zii.
Viene precisato nella sentenza che l'art. 148 c.c. (ne testo applicabile ratione temporis) si riferisce unicamente agli ascendenti dei genitori del figlio da mantenere, stabilendo che essi siano "tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinchè possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli". La disposizione non può che intendersi, dunque, se non come riferita ai nonni del figlio da mantenere (Cass. 3402/1995), e non certo agli zii. Costoro non sono, infatti, parenti in linea retta - a quali soltanto si attaglia il termine "ascendenti", giacchè trattasi di "persone di cui l'una discende dall'altra" - bensì in linea collaterale, in quanto, in relazione al nipote, pur avendo uno stipite comune, non discendono l'uno dall'altro (art. 75 c.c.).
 
 
Cass. civ. Sez. I, Sent., 24-11-2015, n. 23978
COMODATO

PROCEDIMENTO CIVILE

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 17766/2014 proposto da:

Svolgimento del processo

1. Con decreto ex art. 148 c.c., depositato il 12.10.2011, il Tribunale di Roma così disponeva: 1) dichiarava l'incompetenza territoriale del giudice adito, in ordine alla domanda di risarcimento danni proposta da B.V. nei confronti del padre B.M., in conseguenza della condotta dal medesimo asseritamente tenuta in violazione dei doveri paterni; 2) dichiarava inammissibile la domanda della ricorrente di assegnazione della ex casa coniugale; 3) rigettava, per difetto di legittimazione passiva, la domanda proposta dalla B. nei confronti delle zie paterne.

2. Avverso tale provvedimento proponeva reclamo ex art. 739 c.p.c., B.V., che veniva disatteso dalla Corte di Appello di Roma, con decreto del 3.1.2014, con il quale il giudice di seconde cure - pur ritenendo sussistere la competenza dei Tribunale adito - rigettava tutte le domande proposte dalla reclamante, reputandole, in parte inammissibili, in parte sfornite di prova.

3. Per la cassazione del decreto del 3.1.2014 ha proposto, quindi, ricorso B.V. nei confronti di B.M., affidato a sei motivi.

4. Il resistente ha replicato con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso, B.V. denuncia la falsa applicazione dell'art. 346 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

1.1. Si duole la ricorrente del fatto che la Corte di Appello abbia ritenuto sfornita di prova la pretesa risarcitoria avanzata dalla medesima nei confronti del padre, B.M., per violazione degli obblighi di assistenza morale e materiale nei suoi confronti, sul presupposto che l'appellante non aveva riproposto, nel giudizio di appello, le istanze istruttorie avanzate in prime cure. Il giudice del gravame avrebbe, invero, applicato non correttamente il disposto dell'art. 346 c.p.c., atteso che tale norma riguarda le sole domande ed eccezioni rigettate o non esaminate nel primo grado del giudizio, e non riproposte in appello, e non certo anche le istanze istruttorie.

1.2. Il motivo è infondato.

1.2.1. Non può revocarsi in dubbio, infatti, che il disposto di cui all'art. 346 c.p.c., la cui violazione è censurata dalla ricorrente, non possa trovare applicazione nella specie, atteso che tale disposizione si riferisce all'appellato vittorioso il quale, non essendo soccombente nel primo grado del giudizio, non può proporre appello incidentale, ma può solo riproporre quelle domande ed eccezioni che non sono state accolte, o che non sono state esaminate dai giudice di prime cure, perchè ritenute assorbite dalla pronuncia emessa (cfr. Cass. 1545/2007; 7702/2013). Ben ai contrario, l'appellante, atteso l'effetto devolutivo dell'appello, è tenuto a reiterare nel proprio atto introduttivo del gravame, se intende farle esaminare dal giudice di seconde cure, le istanze istruttorie non ammesse o non esaminate in primo grado, ai sensi degli artt. 342 e 345 c.p.c. (Cass. 9410/2011).

1.2.2. Ne consegue che, nel caso concreto, essendosi il Tribunale di Roma limitato a dichiarare l'incompetenza territoriale del giudice adito, in ordine alla domanda di risarcimento danni proposta da B.V. nei confronti del padre B.M., l'odierna ricorrente avrebbe dovuto reiterare in appello le istanze istruttorie articolate in primo grado a sostegno di tale domanda, e non esaminate dal primo giudice. Il richiamo all'art. 346 c.p.c., operato dalla istante, onde inferirne l'inapplicabilità di tale disposizione alle istanze istruttorie, è, pertanto, del tutto inconferente.

1.3. La censura va, di conseguenza, rigettata.

2. Con il secondo motivo di ricorso, B.V. denuncia la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 1, art. 100 c.p.c., artt. 147 e 315 bis c.c., art. 3, comma 1, della Convenzione di New York del 20.11.1989 e art. 2043 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

2.1. Avrebbe errato la Corte di Appello nel ritenere inammissibile la domanda di assegnazione della ex casa coniugale, sul presupposto che trattasi di provvedimento che può essere emesso solo nell'ambito del procedimento di separazione o di divorzio, laddove - nel caso concreto - la B. aveva fondato tale richiesta a titolo di mantenimento e/o risarcitorio nei confronti del padre inadempiente ai propri doveri.

2.2. Il motivo è inammissibile.

2.2.1. Va osservato, infatti, che il rapporto di comodato, riconducibile al tipo regolato dagli artt. 1803 e 1809 c.c., che si instaura tra il comodante ed uno dei coniugi, perchè l'immobile venga adibito a casa coniugale, sorge per un uso determinato ed ha - in assenza di una espressa indicazione della scadenza - una durata determinabile "per relationem", con applicazione delle regole che disciplinano a destinazione della casa familiare, indipendentemente, dunque, dall'insorgere di una crisi coniugale. Tale rapporto è destinato, pertanto, a persistere o a venir meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari che avevano legittimato l'assegnazione dell'immobile (Cass. S.U. 20448/2014).

2.2.2. Nel caso concreto, la stessa ricorrente (p. 2 del ricorso) afferma, e tanto risulta anche dall'impugnata sentenza (p. 2) che la ex casa coniugale, sita in Roma, era di proprietà della nonna paterna che aveva data in comodato al figlio, B.M., perchè la utilizzasse come casa coniugale, e che tale comodato era stato risolto dopo la separazione del medesimo dalla consorte. Ne discende che il padre della ricorrente non potrebbe comunque assegnare la casa a quest'ultima, attesa la risoluzione del comodato e la restituzione del bene alla legittima proprietaria.

2.2.3. La censura mossa dalla ricorrente alla statuizione di appello, che ha dichiarato inammissibile la domanda di assegnazione della casa coniugale, non può, pertanto, trovare accoglimento per evidente difetto di interesse, trattandosi di bene del quale l'odierno resistente non può disporre.

2.3. Il mezzo in esame va, di conseguenza, dichiarato inammissibile.

3. Con il terzo motivo di ricorso, B.V. denuncia la violazione dell'art. 115 c.p.c. e l'omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

3.1. La ricorrente si duole del fatto che la Corte di Appello abbia ritenuto non provata la domanda diretta ad ottenere un maggior contributo ai proprio mantenimento da parte del padre, laddove il giudice del gravame avrebbe dovuto tenere conto, a suo avviso, dell'autocertificazione prodotta dall'appellante agli atti di causa, dalla quale si sarebbe potuto desumere che la medesima era iscritta nelle liste di collocamento ed ancora in attesa di essere avviata al lavoro.

3.2. Il mezzo è infondato.

3.2.1. Ed invero, sotto il profilo della violazione di legge, va rilevato che la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili per il doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione è rimessa all'apprezzamento discrezionale, ancorchè motivato, del giudice di merito, ed è censurabile, quindi, in sede di legittimità, soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione e non anche sotto quello della violazione di legge (artt. 115 e 116 c.p.c.) (Cass. 21603/2013).

3.2.2. Quanto al denunciato vizio di motivazione, va osservato che - a seguito della novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito nella L. n. 134 del 2012 - l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. 8053/2014). Per cui il fatto che la Corte di Appello non abbia preso in esame l'autocertificazione della ricorrente non è censurabile sotto il profilo del vizio di motivazione, essendo stato il fatto sotteso all'allegazione probatoria in questione (le condizioni patrimoniali reciproche delle parti) adeguatamente preso in esame dal giudice di seconde cure.

3.3. La censura è, pertanto, infondata.

4. Con il quarto motivo di ricorso, B.V. denuncia l'omessa motivazione e l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4.1. La Corte territoriale sarebbe incorsa in un malgoverno delle risultanze probatorie in atti, per non avere tenuto adeguatamente conto della documentazione prodotta dall'odierna ricorrente, dalla quale avrebbe dovuto desumere la situazione stipendiale reale del padre ai fini della determinazione, anche in via equitativa, del maggior contributo rispetto a quello già corrisposto, dovuto alla figlia per il suo mantenimento.

4.2. Il motivo è inammissibile.

4.2.1. Come dianzi detto, nell'attuale formulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non integra il vizio di motivazione l'omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice (Cass. S.U. 8053/2014).

4.2.2. La censura, così come proposta, non può, pertanto, trovare accoglimento.

5. Con il quinto motivo di ricorso, B.V. denuncia la violazione dell'art. 148 c.c., nonchè l'omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

5.1. Avrebbe errato il giudice di seconde cure nel ritenere che le zie paterne, B.A. e M.P. non fossero legittimate passivamente nel presente giudizio, poichè non assimilabili agli ascendentialt ai fini del concorso al mantenimento della nipote non economicamente autosufficiente. Il concetto di prossimità parentale, ai fini in questione, andrebbe, per contro, inteso - a parere della ricorrente - in senso lato, non essendo stato "circoscritto dal legislatore a nessun grado di parentela in particolare". Sicchè, a fronte dello "stato di povertà" di B.M., non vi sarebbero dubbio "che le sorelle siano tenute a sopperire a tale sua deficienza satisfattoria delle necessità della figlia".

5.2. La censura è infondata.

5.2.1. L'art. 148 c.c. (ne testo applicabile ratione temporis) si riferisce, invero, testualmente agli "altascendentialt" dei genitori del figlio da mantenere, stabilendo che essi siano "tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinchè possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli". La disposizione non può che intendersi, dunque, se non come riferita ai nonni del figlio da mantenere (Cass. 3402/1995), e non certo agli zii. Costoro non sono, infatti, parenti in linea retta - a quali soltanto si attaglia il termine "altascendenti", giacchè trattasi di "persone di cui l'una discende dall'altra" - bensì in linea collaterale, in quanto, in relazione al nipote, pur avendo uno stipite comune, non discendono l'uno dall'altro (art. 75 c.c.).

5.2. Ne consegue che nel caso di specie, - come ha correttamente ritenuto la Corte di Appello, con motivazione immune da censure -le zie paterne della B. non possono considerarsi legittimate passive nel presente giudizio, non essendo ad esse applicabile il disposto dell'art. 148 c.c., nella formulazione previgente.

5.3. Il mezzo va, di conseguenza, rigettato.

6. Con il sesto motivo di ricorso, B.V. denuncia la violazione dell'art. 91 c.p.c., nonchè l'omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

6.1. Si duole la ricorrente del fatto che la Corte di Appello, a differenza del Tribunale, l'abbia condannata - peraltro senza adeguata motivazione - a pagamento delle spese processuali del secondo grado del giudizio.

6.2. La censura è infondata.

6.2.1. La Corte di Appello ha, difatti, condannato l'appellante alle spese del giudizio, ai sensi dell'art. 91 c.p.c., avendo rigettato tutte le domande dalla medesima proposte, revocando anche l'ordinanza cautelare emessa su sua istanza.

6.2.2. Nè la condanna del soccombente alle spese processuali richiede alcuna motivazione specifica, come è, invece, richiesto per la loro compensazione (Cass. 1868/1979; 2730/2012).

6.3. Il motivo va, pertanto, disatteso.

7. Per tutte le ragioni esposte, il ricorso proposto da B. V. deve, di conseguenza, essere integralmente rigettato.

8. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, nella misura di cui in dispositivo. Non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art.13, comma 1 quater, per essere il processo esente dal versamento del contributo unificato.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 2.000,00, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfettarie ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 20 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2015

 
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